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11 settembre 2012

Socialità e Cultura

La libertà di fare nel portare a termine progetti efficienti per ottenere beni durevoli o da consumare è compromessa dal diritto/dovere di investire e consumare secondo
criteri precostituiti in forma standard.

Ho più volte richiamato il beneficio che, in Italia, la legge concede al fattore lavoro a scapito degli altri fattori di produzione quali: il capitale, la terra e l’impresa. Ieri, il premier Mario Monti nel rivolgersi agli industriali tessili per l’inaugurazione della Fiera «Milano Unica» e successivamente, a Roma, nel faccia a faccia con i sindacati, tra l’altro, ha affermato che il governo avrà un ruolo di «facilitatore ma esige a nome del Paese che imprese e sindacati facciano di più per l’intesa». Ha aggiunto che l’obiettivo è aggiungere alla «moderazione salariale» la «modernizzazione dei rapporti di lavoro» secondo l’accordo di fine giugno 2011, cui va data piena attuazione. 


Ecco dunque, finalmente, la voce autorevole di un capo di governo che manifesta con chiarezza il ruolo fondamentale delle strutture pubbliche in un paese che si avvia alla globalizzazione: assumere le funzioni di propagatore istituzionale di sviluppo economico e sociale e dismettere la gestione diretta dell’economia come regolatrice dell’ordine sociale. Dalle reazioni al suo discorso ho la conferma che questo particolare argomento non sia ancora assimilato dai partiti che continuano ad arrovellarsi in battaglie da basso impero.

Oggi, è ancora ferma, nel cittadino, la convinzione secondo la quale la cultura del lavoro dipendente (ovvero quella del posto fisso) che nasce da una legislazione unica al mondo, sia valutata come fonte del diritto, anziché come una o più opportunità che ognuno ha nello scegliere quale dei quattro fattori, tra terra, lavoro, capitale e impresa, sia il più conveniente nel compimento del proprio progetto di vita. Da noi, fare impresa è un percorso ancora ostacolato. 

La libertà di fare nel portare a termine progetti efficienti per ottenere beni da investire o da consumare è compromessa dal diritto/dovere di investire e consumare secondo criteri precostituiti in forma standard, seguendo un percorso obbligato al di fuori del quale è possibile cadere, anche inconsciamente, nella trasgressione di qualche legge o regolamento. 
Questa è una cultura del lavoro che inficia la nostra esistenza, al punto che, pur disponendo di tutto, siamo ridotti a vivere in modo precario e quando, allo stesso tempo, gran parte di noi abbiamo appena il necessario per vivere. Per accedere a opportunità per soddisfare i bisogni, sono percorribili solo vie tortuose col ricorso a forme risolutive improprie: quale l’uso dei fondi previdenza per scopi speculativi o assistenziali. La cultura del lavoro, intesa come mera esecuzione d’opera, induce a equivocare sugli stessi concetti enunciati nelle scienze umane che, in generale, dovrebbero costituire il pilastro della conoscenza ed essere poste a fondamento di una cultura accessibile a tutti. 
Contrariamente a quanto comunemente si crede, l’intelligenza, il pensiero e la ragione non sono predisposti per svelare la causa prima del nostro essere, come l’origine del mondo e il mistero della vita, ma mezzi per acquisire un sapere congruo per dotarci dei mezzi idonei al nostro percorso di vita. Nel caso specifico, voglio dire che bisogna abbandonare il pregiudizio diffuso sulla ricchezza e sul capitale generato dal lavoro, secondo il quale entrambi vanno combattuti perché sono il male: occorre invece pensare che la ricchezza e lavoro intesi come occupazione in senso generale, siano il Bene comune, e il male possa essere attribuito solo a chi non sa gestire la propria persona e i propri averi. 

Di questo solo concetto ho già scritto in altra parte del blog. Qui, invece aggiungo solo col dire che la cultura non ha connotazioni specifiche, né particolari appartenenze: è l’espressione umana condivisa di ciò che trascende l’occorrenza corporea. Si tratta dell’aspirazione religiosa, della disposizione morale e della sensibilità estetica, sentimenti che avviano l’iterazione tra processi comportamentali mossi dagli istinti propri della socialità che, elaborati in forma umana attraverso la ragione, determinano l’ossatura culturale del gruppo.

La società non richiede un’offerta culturale poiché la domanda si manifesta come mero coinvolgimento che trascende il possesso di cosa reale. L’appagamento che produce cultura non ha rapporto alcuno con lo spazio e con il tempo di fruizione, né col supporto tecnico sul quale questa si diffonde. 


Ciò premesso, la cultura ha un valore universale che si manifesta per l’interesse che suscita indipendentemente dal fatto che abbia origine pubblica o privata. 
L’intervento dello stato non può interferire con la scelta dei contenuti culturali che derivano dagli orientamenti delle persone singole che traggono origine dagli usi, dai costumi, dalle tradizioni e dalle radici della storia. 
Al riguardo, l’élite al potere - da non confondere con le persone che reggono il governo attuale - tende invece a imporsi in modo autoritario con ordinamenti politici d’ispirazione ideologica; al contrario, laddove necessario, dovrebbe assecondare il cambiamento come propagatrice di cultura sollecitando i cittadini a raccogliersi attorno ad istituzioni volontarie di carattere associativo da finanziare con eccedenze di reddito non utilizzate per scopi esistenziali primari. La cultura deve quindi vivere e prosperare sotto forma di offerta non condizionata da vincoli politici, giuridici, sociali ed economici; deve peraltro sottostare all’etica che gli operatori e i fruitori condividono e considerano essenziali al vivere civile e, più in generale, al rispetto della libertà di tutti. Cultura e società sono il binomio che costituisce il terzo assioma che regge il paradigma della persona nella società.

Anche sugli sviluppi di questi temi, Mario Monti assumerà molti meriti: durante il colloquio con il presidente del consiglio Ue, a margine del forum Ambrosetti di Cernobbio, ieri, dopo aver detto "L'Europa è minacciata dai populismi", ha proposto al presidente Van Rompuy “la possibilità di convocare una riunione ad hoc a Roma per riunire i Capi di Stato e di Governo al Campidoglio, lì dove il 25 marzo del 1957 furono firmati i Trattati di Roma".
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Roma 12 settembre 2016
I meriti di Mario Monti? Nessuno, solo biasimo e disgusto, per la differenza di significato tra due parole: facilitatore e propagatore.
Conoscevo questa differenza e la capii quando, anni fa il prefato assunse la carica di rettore al posto di Giovanni Demaria. 

2 commenti:

  1. Tanta acqua passa sotto i ponti del Tevere e, ancora oggi la nostra libertà di fare è ingabbiata tra leggi e reglolamenti che richiamano le grida di manzoniana memoria.

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