Essere, Ricevere, Dare e Avere
In questi giorni, siamo preoccupati del
prosciugamento che s’affonda nelle
nostre tasche per la perfida improntitudine di mascalzoni intrufolati nell’amministrazione
dello stato, nel governo e nella miriade di organismi corporativi dove scialano tra connivenze, intrallazzi e parentele, esercitando forti pressioni sul parlamento per ottenere che le leggi siano conformi ai loro interessi particolari. Costoro hanno la mente offuscata da un'immagine
di Stato falsa, ipocrita e classista e intaccano il patrimonio che
produce il nostro guadagno, anziché trarre dal reddito dei contribuenti lo stretto
necessario per la gestione dei beni e dei servizi da erogare secondo principi di efficienza. Regna ovunque grande la confusione nell'attribuire distinzioni
tra beni pubblici e privati, tra ricchezza e povertà: la sensazione più diffusa
è che chi, come noi che ne siamo fuori, ci sentiamo sempre più poveri e privi di mezzi per giungere alla
fine del mese. Il tessuto sociale si sfilaccia, mentre occorre riscoprire i
valori senza i quali diventa insopportabile la convivenza tra le persone.
A mio parere, questi
valori si ritrovano col coniugare con adeguata ragionevolezza i verbi segnati
nel sottotitolo di questo post: Essere, Ricevere, Dare e Avere.
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Immagino di riferire il concetto di convivenza ad un modello esistenziale lontano dalle relazioni di partito dove sono coltivate ideologie oligarchiche incapaci di allontanarsi e dirimersi dal conflitto interclassista che si svolge specie quando si coltivano sentimenti costruiti sul reciproco sospetto.
Il modello che intendo deve quindi conciliare non solo gli interessi individuali ma, in aggiunta, considerare anche quelli collettivi tra i gruppi di persone che liberamente si associano.
Il modello già esiste e
non occorre inventare nulla.
L’ha proposto Gesù più di
duemila anni fa.
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Gli Atti degli Apostoli (Cap.4; 32–37) ricordano, che, dopo
l’Ascensione di Gesù Cristo, “la
moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e
un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva,
ma fra loro tutto era comune, … Nessuno tra loro era bisognoso, perché quanti
possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era
stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli e poi veniva
distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno”. Il brano continua col riferire
che “ Così Giuseppe, soprannominato dagli
apostoli Bàrnaba[1],
… padrone di un campo, lo vendette e ne consegnò il ricavato deponendolo"
come gli altri, “ai piedi degli apostoli”
e, divenuto apostolo e membro autorevole della prima comunità cristiana, si
fece garante di Saulo di Tarso[2].
Degli altri credenti, negli Atti, non c’è traccia, ma
divenuti cristiani, tutti fecero come Giuseppe che si liberò dei beni perché
fossero impiegati nel farli fruttare a beneficio di tutti e distribuiti perché
il benessere della comunità non solo fosse mantenuto, ma aumentato. Non fu
carità pelosa, assistenza col volto del munificenza paternalistica, ma operosità condivisa,
cosicché i cristiani formarono una umanità che si è continuamente rinnovata
secondo un paradigma esistenziale costituito da una sequela di effetti
condizionati che mantengono unita e prospera la forma comunitaria, purché
sostenuta da principi caritatevoli sorgenti dalla fiducia inflessibile nell'altro:
inflessibile a tal punto che, in questo ambito, la volontà di tutti sia orientata a
non frammentarsi in caste.
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Se non sei tra noi,
non puoi essere libero, se non sei libero non puoi ricevere; so non ricevi non
puoi dare; se non dai, non hai”.
Si tratta di un circuito
virtuoso che dal poco riesce a produrre il molto.
In senso positivo, la frase
si può enunciare sostenendo che essere è libertà di appartenere alla comunità
indivisa ed indivisibile; che libertà significa che ogni membro possa gestire
con vantaggio i beni che riceve in eredità, in dono o per contratto e, infine,
che il dare e l'avere si esercitano attraverso lo scambio dei beni tra quelli
dell’uno con quelli dell’altro.
Con quanto scritto
sino a qui, si potrebbe immaginare che la proprietà privata debba essere resa
pubblica così come sembrerebbe leggendo l'episodio negli Atti. In verità vale
il contrario. Infatti, i beni deposti ai piedi degli Apostoli non giunsero ad
una comunità intesa come organismo pubblico ma alle singole persone secondo i
bisogni di ciascuno. E, ben s’intenda, i
beni non erano quelli di consumo, ma, essenzialmente, strumentali con funzione
di produrre altri beni. Invero, successe che la ricchezza improduttiva di
Giuseppe, fu rigenerata dal talento che Barnaba stesso scoprì tra gli adepti
della comunità dei cristiani.
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Occorre anche osservare il significato di "ai piedi degli apostoli". Perché ai piedi e non nelle mani? Non perché i beni valessero molto o poco, ma perché gli Apostoli erano solo garanti di regolarità nella circolazione dei doni costituiti dal superfluo per gli uni che si muta in necessario per gli altri. Questa interpretazione è confermata dal successivo episodio di Anania e Safira che, pur donando, avevano trattenuto per sé un po' del proprio, morirono entrambi seccati da una sincope.
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Oggi, rispetto ai tempi
di Giuseppe-Barnaba i termini del problema si sono rovesciati. Deporre le
proprie ricchezze ai piedi dei Vescovi, il più delle volte si pensa che siano riciclati nello IOR. Oggi le ricchezze sono in mano agli stati e questi
le gestisce male e, quanto più spesso, le lascia inutilizzate. Coniugando il verbo
dei socialisti gli stati tendono ancora a sostituirsi alla famiglia nell’assistere
il cittadino dalla nascita e per tutta
la vita, cosicché nessuno sia più responsabile di ciò che fa.
Basta! Occorre che le
persone si riuniscano in popolo e riacquistino la libertà e la proprietà dei
beni per gestirli secondo progetti ragionevoli e per mantenere elevato il benessere
materiale in una società dove la ricchezza è diffusa e non è più sotto il controllo dei magnati della finanza e delle banche, dello Stato e degli Enti locali. Oggi manca
l’essenziale per raggiungere un adeguato equilibrio sociale. Mancano un
progetto condiviso e una volontà unitaria per condurlo, e, soprattutto, la fiducia
dell’uno verso l’altro ancora inficiata dal poca trasparenza nei mercati eccessivamente falsati dalla circolazione del
debito pubblico che esercita eccessivo peso sugli investimenti strutturali e privati .
°°°
Le seguenti proposizioni concludono questo mio post.
1. Si nasce liberi. Non si nasce col
diritto di essere liberi! Se ho diritto, di essere libero, vuol dire che
la mia libertà è strutturata secondo norme che esulano dalla
deontologia e, allo stesso tempo, coatta a tal punto, che gli atti
stessi, anche quelli senza rilevanza sociale, non sono più il prodotto
di scelte personali ma forzature che offendono l’autonomia operativa che
è il motore dell’autodeterminazione.
In sostanza, nell'immanente, il costo sociale della libertà è costituito dai vincoli che i soggetti riuniti in società sono disposti o costretti a sopportare per la conduzione dell’esistenza volta ad ottenere cambiamenti sociali che siano realmente al servizio di ogni persona e di tutta la persona (*). Nel trascendente, c’è tutto il resto: la persona e la sua esistenza, e, senza alcun vincolo, la libertà, mancando la quale subentra la paura.
In sostanza, nell'immanente, il costo sociale della libertà è costituito dai vincoli che i soggetti riuniti in società sono disposti o costretti a sopportare per la conduzione dell’esistenza volta ad ottenere cambiamenti sociali che siano realmente al servizio di ogni persona e di tutta la persona (*). Nel trascendente, c’è tutto il resto: la persona e la sua esistenza, e, senza alcun vincolo, la libertà, mancando la quale subentra la paura.
2. La proprietà nasce dal sentimento
inviolabile di possesso di tutto ciò che si fa, si produce e si dispone.
Questo sentimento coinvolge la libertà di negoziare ciò che si ha,
violata la quale si sconvolgono gli assetti individuali che
costituiscono le basi per il soddisfacimento del bisogno sin dal non
esserne più liberi, ma vincolati. La proprietà dei beni nel territorio
nazionale riguardanti le funzioni essenziali dello Stato e la sua
sicurezza, è pubblica sino a quando si rende disponibile per essere
conferita in comodato o data in concessione a privati.
3. La cultura è un
valore universale che si manifesta per l’interesse che suscita
indipendentemente dal fatto che abbia origine pubblica o privata.
L’intervento pubblico non può interferire con la scelta dei contenuti
culturali che derivano dagli orientamenti delle persone singole che
traggono origine dagli usi, dai costumi, dalle tradizioni e dalle radici
della storia. Al riguardo, l’élite al potere tende invece a imporsi in
modo autoritario con ordinamenti politici d’ispirazione ideologica; al
contrario, laddove necessario, essa dovrebbe assecondare il cambiamento
come propagatrice di cultura sollecitando i cittadini a raccogliersi
attorno ad istituzioni volontarie di carattere associativo da finanziare
senza sottrarre dai redditi risorse per scopi esistenziali primari. Occorre
che si diffonda la convinzione che la carità, che esige e rende capaci
della pratica della giustizia, sia il più grande comandamento sociale.
La cultura intesa come motore della solidarietà sociale, deve quindi
vivere e prosperare sotto forma di offerta non condizionata da vincoli
politici, giuridici, sociali ed economici; deve peraltro sottostare
all’etica che gli operatori e i fruitori condividono e considerano
essenziali al vivere civile e, più in generale, al rispetto della
libertà di tutti. Cultura e società sono il binomio che costituisce il
terzo assioma che regge il paradigma della persona nella società.
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Urge proporre rivedere e armonizzare, a livello globale, la legislazione sulle royalty, sui brevetti e sui diritti d'autore, in modo da superare il principio che solo il tempo sia la misura per rendere decaduto il diritto. Ciò che sta accadendo con gli OGM è scandaloso. Il Petrolio ha ricostituito una società tribale che costruisce megalopoli nel deserto coi petrodollari. Malattie rare non guarite perché la sperimentazione dei farmaci non forma business. ...
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